In questi giorni sto studiando un argomento che mi affascina molto: la vulnerabilità. Essa è prodomo di una caratteristica propria delle persone deboli e disabili oltre che donne e bambini. È tutelata da diverse convenzioni europee e trova la sua origine primaria nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. Con essa, dopo la barbarie della Shoah e del secondo conflitto mondiale, si aprì un capitolo nuovo nella tutela dei diritti: si passò da una protezione statale che sotto i regimi totalitari era negata, ad una internazionale dove i singoli Stati dovevano approntare riforme che tutelassero il singolo individuo fragile e non di fronte a qualunque tipo di violenza. Come disse Norberto Bobbio nel suo saggio “L’età dei diritti” si passa da un piano di sudditanza verso un sovrano ad un piano di ricerca verso sempre più diritti a protezione del cittadino. Laddove il diritto s’estende a tutelare sempre più categorie c’è il rischio di una crisi che può essere risolta soltanto con il riconoscimento cosmopolita ossia di tutti gli Stati alla tutela dei diritti, di vulnerabilità e discriminazione. La discriminazione è prodomo di una lesione della caratteristica di un individuo sia ad esempio per il colore della pelle sia per nascite premature (il mio caso) sia per fragilità di vario genere che per nazionalità. Esistono due tipi di discriminazione: una diretta che può riguardare il divieto a persone di colore o stranieri di entrare in una certa località oppure una indiretta che afferisce a casi di preferenza di un soggetto ai fini lavorativi rispetto a un altro. E da ciò si può arrivare allo sfruttamento lavorativo o sessuale e si giunge al concetto di vulnerabilità. Essa attribuisce al soggetto portatore di bisogni una tutela speciale garantita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e a livello nazionale garantita dalla nostra Repubblica democratica cui la Costituzione ha posto rimedio.